V
Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell’ordine:
- il Cristo.
- il sacerdote;
- la Chiesa;
- i fedeli.
1) Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: «Missa est sacra synaxis seu congregatio populi», al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la «presenza» del Signore (n. 28): «Qua salutatione et populi responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium».
Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza.
Ciò si ripete ovunque:
- il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
- l’inaudita distinzione tra «Missa cum populo» e «Missa sine populo» (nn. 203-231);
- la definizione della «oratio universalis seu fidelium» (n. 45), ove si sottolinea ancora una volta l’«ufficio sacerdotale» del popolo («populus sui sacerdotii munus exercens») presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello del sacerdote; tanto piú che questi si fa interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei due Memento.
Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus», p. 123) è addirittura detto al Signore: «populum tibi congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo»: ove l’affinché fa pensare che l’elemento indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è precisato neppure qui chi sia l’offerente (17) il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi.
Di questo passo non stupirebbe l’autorizzazione al popolo, tra qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
2) La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo piú come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che celebra in persona Christi.
Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo». Nella definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.
Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è piú giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia piú dato di impartire l’assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è «integrato» ai fratres. Persino il chierichetto lo chiama cosí nel Confiteor della «Missa sine populo».
Già prima di quest’ultima riforma era stata soppressa la significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote – il momento in cui, per cosí dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento del Sacrificio) – e quella dei fedeli.
Non piú una parola ormai sul suo potere di sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla piú che un ministro protestante.
La sparizione o l’uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba e stola bastano – n. 298) vanificano ancor piú l’originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è piú rivestito di tutte le virtú di Lui; egli è un semplice «graduato» che uno o due segni distinguono appena dalla massa (18): («un po’ piú uomo degli altri» per citare la formula involontariamente umoristica di un moderno predicatore (19).
Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha unito: l’unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
In un solo caso, quello della «Missa sine populo» ci si degna di ammettere che la Messa è «Actio Christi et Ecclesiæ» (n. 4, cfr. Presb. Ord. n. 13), mentre nel caso della «Missa cum populo» non si accenna che allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i presenti. «Presbyter celebrans… populum… sibi sociat in offerendo sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo Patri» (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che offre sé stesso «per Spiritum Sanctum Deo Patri». S’inseriscono in questo contesto:
- la gravissima omissione delle clausole «Per Christum Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla Chiesa di tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16, 23-24);
- l’ossessivo «paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
- l’escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante – non piú militante, si badi, contro la Potestas tenebrarum – verso un futuro che non è piú vincolato all’eterno (quindi anche all’eterno presente) ma a un vero e proprio
avvenire temporale.
La Chiesa – Una, Santa, Cattolica, Apostolica – è umiliata come tale nella formula che, nella «Prex eucharistica IV», ha sostituito la preghiera del Canone romano «pro omnibus orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus». Ora essi sono, né piú né meno: «omnium qui te quærunt corde sincero».
Cosí, nel Memento dei morti, questi non sono piú trapassati «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis» ma semplicemente «obierunt in pace Christi tui»; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di «omnium defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti».
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta, snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio (20).
Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
- Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e Santi sono ridotti all’anonimato nella seconda parte del Confiteor collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di Michele, dalla prima (21).
- Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo Prefazio della «Prex II».
- Soppressa nel Communicantes la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa romana.
- Soppressa, nel Libera nos, la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è quindi piú chiesta neppure nel momento del pericolo.
- L’unità della Chiesa è compromessa fino all’intollerabile omissione, nell’intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces» (e con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
- Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le salutationes e della benedizione finale; dell’Ite Missa est (22), poi, persino nella messa celebrata con l’inserviente.
- Il doppio Confiteor mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi indegno dell’alta missione, del «tremendum mysterium» che andava a celebrare, e addirittura (nell’Aufer a nobis) di entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell’Oramus te, Domine) i meriti dei martiri di cui l’altare racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio Confiteor e la doppia Comunione.
- Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del luogo sacro nel qual caso l’altare può essere sostituito da una semplice «mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una sola tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del «convivium» e sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità dell’offerta;
- l’accenno al pane anziché all’azimo;
- la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie) di toccare i vasi sacri (n. 244d);
- la inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com’è a «spiegare» ciò che sta per compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la colletta, portano e smistano offerte;
- e, in tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della «mulier idonea» che, per la prima volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e adempiere anche ad altri «ministeria quae extra presbyterium peraguntur» (n. 70).
- Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti (23).
VI
Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni piú gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro.
Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo (24) ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante.
Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale pastorale», «testo piú pastorale che giuridico» su cui le Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà responsabile «dell’edizione e della costante revisione dei libri liturgici». Scrive l’ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria (25):
«i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato all’individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».
La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che «in tot varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio… quovis ture fragrantior ascendat». La morte del latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano, che pure il Concilio riconobbe «liturgiæ romanæ proprium» (Sacros. Conc. n. 116), ordinando che «principem locum obtineat» (ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l’altro, dei testi dell’Introito e del Graduale.
Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo. Spezzata cosí per sempre l’unità di culto, in che cosa consisterà ormai quell’unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza compromissioni? È evidente che il Novus Ordo non vuole piú rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno. Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
VII
La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale, tanto lo spirito ne è, piú che remoto, addirittura opposto. A che si riducono queste scelte ecumeniche? In sostanza:
- alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
- alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie.
Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana, era piú prossimo all’orientale (26) e, rinnegando l’inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò che piú gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli piú prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre vieppiú ne allontaneranno l’Oriente, come l’hanno già allontanato le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l’organismo, intaccandone l’unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi spirituale senza precedenti.
VIII
S. Pio V curò l’edizione del Missale romanum affinché (come la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede, insidiata allora dalla Riforma protestante.
Cosí gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale:
«Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotenti Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570) (27).
Si è avuto l’ardire di affermare, presentando ufficialmente il Novus Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni del Tridentino non sussistono piú. Non solo esse sussistono ancora, ma ne esistono oggi, non esitiamo a dirlo, di infinitamente piú gravi. Proprio facendo fronte alle insidie che minacciavano di secolo in secolo la purezza del deposito ricevuto («depositum custodi, devitans profanas vocum novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa dovette erigergli intorno le difese ispirate delle sue definizioni dogmatiche e dei suoi pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero ripercussione immediata nel culto, che divenne il monumento piú completo della sua fede.
Volere ad ogni costo riportare questo culto all’antico, rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità primigenia, secondo quell’«insano archeologismo» cosí tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII (28), significa – come purtroppo si è visto – smantellarlo di tutte le sue difese teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli (29), e proprio in uno dei momenti piú critici, forse il piú critico che la storia della Chiesa ricordi.
Oggi, non piú all’esterno, ma all’interno stesso della cattolicità l’esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta (30); l’unità della Chiesa è non piú soltanto minacciata ma già tragicamente compromessa (31) e gli errori contro la fede s’impongono, piú che insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute (32).
L’abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con un’altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo piú mite, un incalcolabile errore.
Corpus Domini 1969
Notas:
(17) – Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v. A. Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ. Christus est quidem principalis minister. Fideles mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt ». (Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2).
(18) – Notiamo una innovazione impensabile e che sarà psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36, nota 28).
(19) – P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet.
(20) – In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus refrigerii, lucis et pacis» veniva reso come un semplice stato («beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora, della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
(21) – In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l’omissione, menzionata nell’accusa dei peccati al Confiteor…
(22) – Alla conferenza stampa in cui fu presentato l’Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò di convertire in «Dominus tecum», «Ora, frater», etc. le salutationes nella «Missa sine populo», «…perché non vi sia nulla che non corrisponda a verità».
(23) – A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di comunicarsi di nuovo sub utraque specie durante questa.
(24) – Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito» mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza verbale.
(25) – Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
(26) – Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti di vestizione del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa, delle offerte alla proscomidia; alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche (che, nell’Entrata col Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con le quali si identifica il coro nel Cherubicon); alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo; alla consacrazione celata, evidente simbolo dell’Inconoscibile a cui l’intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum e mai versus ad populum; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all’atteggiamento essenzialmente contemplativo del popolo.
Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino piú di un’ora, e le costanti definizioni che vi si trovano («tremenda e inenarrabile liturgia», «tremendi, celesti, vivificanti misteri», ecc.) bastino a dir tutto.
Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto di «cena» o di «banchetto» appaia chiaramente subordinato a quello di sacrificio, cosí come lo era nella Messa romana.
(27) – Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di Trento manifesta la sua intenzione «ut stirpitus convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo… in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.)… quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB, 873).
(28) – «Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam altari velit mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus est, cruciatus… Hæc enim cogitandi agendique ratio nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem, quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere enititur errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia, cum evigilans semper evistat “fidei depositi” custos sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit» (Mediator Dei, I, 5).
(29) – «…Non ci illuda il criterio di ridurre l’edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone…» (Paolo VI, Ecclesiam suam).
(30) – «Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa» (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
(31) – «Vi sono anche tra noi quegli «schismata», quelle «scissuræ» che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia» (cfr. Paolo VI, ibid.).
(32) – È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri; coloro che – mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla – ne partirono decisi a «farne esplodere» il contenuto in sede di applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai piú parve inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali (latino, gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le terribili conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora piú catastrofico, nei campi della disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede Apostolica.
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