Lettera Enciclica del Sommo Pontefice San Pio X sugli errori del Modernismo – parte III
Che se dalle cause morali veniamo a quelle che spettano all’intelletto, la prima da notarsi è l’ignoranza. I modernisti, quanti essi sono, che vogliono apparire e farla da dottori nella Chiesa, esaltando a grandi voci la filosofia moderna e schernendo la scolastica, se hanno abbracciata la prima ingannati dai suoi orpelli, ne devono saper grado alla totale ignoranza in che erano della seconda, e dal mancare perciò di mezzo per riconoscere la confusione delle idee e ribattere i sofismi. Dal connubio poi della falsa filosofia colla fede è sorto il loro sistema, riboccante di tanti e si enormi errori.
Alla propagazione del quale portassero almeno un minor zelo ed ardore di quel che fanno! Tanta invece è la loro alacrità, cosi indefesso il lavoro, che da strazio il vedere consumate tante forze a danno della Chiesa, le quali, rettamente usate, le sarebbero di vantaggio grandissimo. A trarre poi in inganno gli animi una doppia tattica essi usano: prima si sbarazzano degli ostacoli, poi cercano con somma cura i mezzi che loro giovino, ed instancabili e pazientissimi li mettono in opera. Degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai loro conati: il metodo scolastico di ragionare, l’autorità dei Padri con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro lotta è accanita. Deridono perciò continuamente e disprezzano la filosofia e la teologia scolastica. Sia che ciò facciano per ignoranza, sia che il facciano per timore o meglio per l’una cosa insieme e per l’altra; certo si è che la smania di novità va sempre in essi congiunta coll’odio della Scolastica; né vi ha indizio più manifesto che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando incominci ad aborrire la Scolastica. Ricordino i modernisti e quanti li favoriscono la condanna che Pio IX inflisse alla proposizione che diceva (Sillabo, Prop. 12): “Il metodo ed i principî, con cui gli antichi Dottori scolastici trattarono la teologia, più non si confanno ai bisogni dei nostri tempi ed ai progressi della scienza”. Sono poi astutissimi nello stravolgere la natura e l’efficacia della Tradizione, alfin di privarla di ogni peso e di ogni autorità. Ma starà sempre per i cattolici l’autorità del secondo Sinodo Niceno, il quale condannò “coloro che osano… secondo gli scellerati eretici, disprezzare le ecclesiastiche tradizioni ed escogitare qualsiasi novità o architettare con malizia ed astuzia di abbattere checché sia delle legittime tradizioni della Chiesa cattolica”. Starà sempre la professione del quarto Sinodo Costantinopolitano: “Noi dunque professiamo di serbare e custodire le regole, che tanto dai santi famosissimi Apostoli, quanto dagli uni versali e locali Concili degli ortodossi o anche da qualunque deiloquo Padre e Maestro della Chiesa, furono date alla santa cattolica ed apostolica Chiesa”. Per lo che i Romani Pontefici Pio IV e Pio IX nella professione di fede vollero aggiunto anche questo: “Io ammetto fermissimamente ed abbraccio le apostoliche ed ecclesiastiche tradizioni, e tutte le altre osservanze e costituzioni del la medesima Chiesa”. Né altrimenti che della Tradizione giudicano i modernisti dei santissimi Padri della Chiesa. Con estrema temerità li spacciano, come degnissimi bensì di ogni venerazione, ma ignorantissimi di critica e di storia, scusabili solo pei tempi in che vissero. Si studiano infine e si sforzano di attenuare e svilire l’autorità dello stesso Magistero ecclesiastico, sia pervertendo ne sacrilegamente l’origine, la natura, i diritti, sia ricantando liberamente contro di essa le calunnie dei nemici. Del gregge dei modernisti sembra detto ciò che con tanto dolore scriveva il Predecessore Nostro (Motu proprio “Ut mysticam”, 14 marzo 1891): “Per rendere spregiata ed odiosa la mistica Sposa di Cristo, che è la luce vera, i figli delle tenebre furon soliti di opprimerla pubblicamente di una pazza calunnia, e, stravolto il significato e la forza delle cose e delle parole, chiamarla amica di oscurità, mentitrice d’ignoranza, nemica della luce e del progresso delle scienze”. Dopo ciò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? Non vi è specie d’ingiurie con cui non li la cerino: l’accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati. Che se la dottrina e l’efficacia di chi li confuta dà loro timore, ne incidono i nervi colla congiura del silenzio. E questa maniera di fare a riguardo dei cattolici è tanto più odiosa perché nel medesimo tempo e senza modo né misura, con continue lodi esaltano chi sta dalla loro; i libri di costoro riboccanti di novità accolgono ed ammirano con grandi applausi; quanto più alcuno si mostra audace nel distruggere l’antico, nel rigettare la tradizione e il magistero ecclesiastico, tanto più gli dàn vanto di sapiente; e per ultimo, ciò che fa inorridire ogni anima retta, se qualcuno sia condannato dalla Chiesa non solo pubblicamente e profusamente lo encomiano, ma quasi lo venerano come martire della verità.
[…] Da tutto questo strepito di lodi e d’improperi colpiti e turbati gli animi giovanili, da una parte per non passare per ignoranti, dall’altra per parere sapienti spinti internamente dalla curiosità e dalla superbia, si dànno per vinti e passano al modernismo.
Ma qui già siamo agli artifici con che i modernisti spacciano la loro merce. Che non tentano essi mai per moltiplicare gli adepti? Nei Seminari e nelle Università cercano di ottenere cattedre da mutare insensibilmente in cattedre di pestilenza. Inculcano le loro dottrine, benché forse velatamente, predicando nelle chiese; le annunciano più aperte nei congressi: le introducono e le magnificano nei sociali istituti. Col nome proprio o di altri pubblicano libri, giornali, periodici. Uno stesso e solo scrittore fa uso talora di molti nomi, perché gli incauti sieno tratti in inganno dalla simulata moltitudine degli autori. Insomma coll’azione, colla parola, colla stampa tutto tentano, da sembrar quasi colti da frenesia. E tutto ciò con qual esito? Piangiamo pur troppo gran numero di giovani di speranze egregie e che ottimi servigi renderebbero alla Chiesa, usci ti fuori dal retto cammino. Piangiamo moltissimi, che, sebbene non giunti tant’oltre, pure, respirata un’aria corrotta, sogliono pensare, parlare, scrivere più liberamente che non si convenga a cattolici. Si contano costoro fra i laici, si contano fra i sacerdoti; e chi lo crederebbe? si contano altresì nelle stesse famiglie dei Religiosi. Trattano la Scrittura secondo le leggi dei modernisti. Scrivono storia e sotto specie di dir tutta la verità, tutto ciò che sembri gettare ombra sulla Chiesa lo pongono diligentissimamente in luce con voluttà mal repressa. Le pie tradizioni popolari, seguendo un certo apriorismo, cercano a tutta possa di cancellare. Ostentano disprezzo per sacre Reliquie raccomandate dalla loro vetustà. Insomma li punge la vana bramosia che il mondo parli di loro; il che si persuadono che non sarà, se dicono soltanto quello che sempre e da tutti fu detto. Intanto si dànno forse a credere di prestare ossequio a Dio ed alla Chiesa; ma in realtà gravissimamente li offendono, non tanto per quel che fanno, quanto per l’intenzione con cui operano e per l’aiuto che prestano utilissimo agli ardimenti dei modernisti.
A questo torrente di gravissimi errori, che di celato e alla scoperta va guadagnando, si adoperò con detti e con fatti di opporsi fortemente Leone XIII Predecessore Nostro di felice ricordanza, specialmente a riguardo delle sante Scritture. Ma i modernisti, lo vedemmo, non si lasciano spaventare facilmente: affettando il maggior rispetto ed una somma umiltà, stravolsero a loro senso le parole del Pontefice, e gli atti di Lui li fecero passare come diretti ad altri. Cosi il male è venuto pigliando forza ogni giorno più. Abbiam dunque deciso, o Venerabili Fratelli, di non tergiversare più oltre e di por mano a misure più energiche. Preghiamo perciò e scongiuriamo voi che, in negozio di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo chiediamo altresì e lo aspettiamo dagli altri pastori delle anime, dagli educatori e maestri del giovine clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini religiosi.
I.
La prima cosa adunque, per ciò che spetta agli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, “se dai Dottori scolastici furono agitate questioni troppo sottili o fu alcun che trattato con poca considerazione; se fu detta cosa che mal si affaccia con dottrine accertate dei secoli seguenti, ovvero in qualsivoglia modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto ciò debba servir d’esempio da imitare anche ai di nostri” (Leone XIII, Enc. “Æterni Patris”.
Ciò che conta anzi tutto è che la filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si debba precipuamente intendere quella di San Tommaso di Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore, e se è bisogno, lo rinnoviamo e confermiamo e severamente ordiniamo che sia da tutti osservato. Se nei Seminari si sia ciò trascurato, toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in avvenire si osservi. Lo stesso comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano, di ben persuadersi, che il discostarsi dall’Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno.
Posto così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l’edificio teologico. Venerabili Fratelli, promovete con ogni industria possibile lo studio della teologia, talché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino seco un’alta stima ed un grande amore e l’abbiano sempre carissimo. Imperocché “nella grande e molteplice copia di discipline che si porgono alla mente cupida di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene talmente il primo luogo, che fu antico detto dei sapienti essere dovere delle altre scienze ed arti di servirla e prestarle mano siccome ancelle” (Leone XIII, Lett. Ap. “In magna”, 10 dicembre 1889). Aggiungiamo qui, sembrarCi altresì degni di lode coloro, che, salvo il rispetto alla Tradizione, ai Padri, al Magistero ecclesiastico, con saggio criterio e con norme cattoliche (ciò che non sempre da tutti si osserva) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia di vero nome. Certamente che alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che pel passato: ciò nondimeno deve farsi in guisa, che nulla ne venga a perdere la teologia scolastica, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che tanto innalzino la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la Scolastica.
In quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore disse con molta sapienza (Allocuz. 7 marzo 1580): “Adoperatevi strenuamente nello studio delle cose naturali: nel qual genere gl’ingegnosi ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi, come di ragione sono ammirati dai presenti, cosi dai posteri avranno perpetua lode ed encomio”. Questo però senza danno degli studi sacri: il che ammoniva lo stesso Nostro Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): “La causa di siffatti errori, chi la ricerchi diligentemente, sta principalmente in ciò che di questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze naturali, tanto più son venute meno le discipline più severe e più alte: alcune di queste infatti sono quasi poste in dimenticanza; alcune sono trattate stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della primitiva dignità, sono deturpate da prave sentenze e da enormi errori”. Con questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze naturali.
II.
A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Antecessore fa mestieri volgere l’attenzione ognora che si tratti di scegliere i moderatori e maestri così dei Seminari come delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia infetto di modernismo, senza riguardi di sorta si tenga lontano dall’ufficio cosi di reggere e cosi d’insegnare: se già si trovi con tale incarico, ne sia rimosso. Parimente si faccia con chiunque o in segreto o apertamente favorisce il modernismo, sia lodando modernisti, sia attenuando la loro colpa, sia criticando la Scolastica, i Padri, il Magistero ecclesiastico, sia ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da qualunque persona essa si eserciti; e similmente con chi in materia storica, archeologica e biblica si mostri amante di novità; e finalmente, con quelli altresì che non si curano degli studi sacri o paiono a questi anteporre i profani. In questa parte, o Venerabili Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la vostra attenzione e fermezza; essendoché sull’esempio dei maestri si formano per lo più i discepoli. Poggiati adunque sul dovere di coscienza, procedete in questa materia con prudenza sì ma con fortezza.
Con non minore vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l’amore di novità: Dio non vede di buon occhio gli animi superbi e contumaci! A niuno in avvenire si conceda la laurea dì teologia o di diritto canonico, che non abbia prima compito per intero il corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò non ostante venisse concessa, sia nulla. Le ordinazioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò nell’anno 1896 pei chierici d’Italia dell’uno e dell’altro clero circa il frequentare le Università, stabiliamo che d’ora innanzi rimangano estese a tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in alcun luogo si è ciò permesso per il passato, ordiniamo che più non si conceda nell’avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di siffatti cattolici Istituti o cattoliche Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si osservino costantemente.
III.
È parimente officio dei Vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo o ad esso favorevoli si leggano se sono già pubblicati, o, se non sono, proibire che si pubblichino. Qualsivoglia libro o giornale o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere o agli alunni dei Seminari o agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano. Né altrimenti si dovrà giudicare degli scritti di taluni cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma che digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fa si che tali libri sieno letti senza verun timore e sono quindi più pericolosi per trarre a poco a poco al modernismo.
Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in sì grave materia, se nelle vostre diocesi corrono libri perniciosi, adoperatevi con fortezza a sbandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede Apostolica ponga ogni opera nel togliere di mezzo siffatti scritti, tanto oggimai ne è cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze. Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè pel troppo attendere il male ha già preso piede. Vogliamo adunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, disprezzando il gridio dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, adempiano ciascuno le sue parti; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica “Officiorum”: “Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi”. Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s’impone in pari tempo un dovere. Né stimi veruno di avere adempiuto cotal dovere, se deferisca a Noi l’uno o l’altro libro mentre altri moltissimi si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve rattenere il sapere che l’autore di qualche libro abbia altrove ottenuto l’Irnprimatur; sì perché tal concessione può essere simulata, sì perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e per troppa fiducia nel l’autore, il quale ultimo caso può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Aggiungasi che, come non ogni cibo si confà a tutti egual mente, cosi un libro che in un luogo sarà indifferente, in un altro, per le circostanze, può tornare nocivo. Se pertanto il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare nella sua diocesi anche qualcuno di siffatti libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi glielo rechiamo a dovere. Intendiamo bensì che si serbino in tal fatto i riguardi convenienti, bastando forse che la proibizione si restringa talora soltanto al clero; ma eziandio in tal caso sarà obbligo dei librai cattolici di non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E poiché Ci cade il discorso, vigilino i Vescovi che i librai per bramosia di lucro non spaccino merce malsana: il certo è che nei cataloghi di taluni di costoro si annunziano di frequente e con lode non piccola i libri dei modernisti. Se essi ricusano di obbedire, non dubitino i Vescovi di privarli del titolo di librai cattolici; similmente e con più ragione, se avranno quello di vescovili; che se avessero titolo di pontifici, si deferiscano alla Sede Apostolica. A tutti finalmente ricordiamo l’articolo XXVI della mentovata Costituzione Apostolica “Officiorum”: “Tutti coloro che abbiano ottenuta facoltà apostolica di leggere e ritenere libri proibiti, non sono perciò autorizzati a leggere libri o giornali proscritti dagli Ordinari locali, se pure nell’indulto apostolico non sia data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da chicchessia”.
IV.
Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; fa d’uopo impedirne altresì la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che, a seconda della Costituzione “Officiorum”, esigono l’autorizzazione dell’Ordinario, in talune diocesi si sogliono determinare in numero conveniente censori di officio per l’esame degli scritti. Somma lode noi diamo a siffatta istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. In tutte adunque le Curie episcopali si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si scelgano questi dall’uno e dall’altro clero, uomini di età, di scienza e di prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi l’esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di stampa colla parola Imprimatur, la quale però sarà preceduta dal Nihil obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non altrimenti che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L’elezione dei medesimi, dopo interpellato il Cardinale Vicario e coll’annuenza ed approvazione dello stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il Nulla osta col nome del Censore. Solo in circo stanze straordinarie e rarissimamente si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a patir molestia o mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa. Mai non si sceglieranno Censori dagli Ordini religiosi, senza prima averne secretamente il parere del Superiore provinciale, o, se si tratta di Roma, del Generale: questi poi dovranno secondo coscienza attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina dell’eligendo. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno di mai non permettere che alcun che si pubblici dai loro sudditi senza la previa facoltà loro e dell’Ordinario diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui taluno sia insignito, non ha verun valore né mai si potrà arrecare come argomento per dar credito alle private opinioni del medesimo.
Detto ciò generalmente, nominatamente ordiniamo una osservanza più diligente di quanto si prescrive nell’articolo XLII della citata Costituzione “Officiorum”, cioè: “È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell’Ordinario, prendere la direzione di giornali o di periodici”. Del quale permesso, dopo ammonitone, sarà privato chiunque ne facesse mal uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti di modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso con ogni autorità ammoniamo che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: i quali se si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici pubblicati dai cattolici abbiano, per quanto sia possibile, un Censore determinato. Sara obbligo di questo leggere opportunamente i singoli fogli o fascicoli, dopo già pubblicati: se cosa alcuna troverà di pericoloso, ordinerà che sia corretto quanto prima. Lo stesso diritto avrà il Vescovo, anche in caso che il Censore non abbia reclamato.
V.
Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni come quelli nei quali i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo. A tali convegni, che dovranno solo permettersi volta per volta e per iscritto o in tempo opportuno, non potrà intervenire sacerdote alcuno di altra diocesi, se non porti commendatizie del proprio Vescovo. A tutti i sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con parole gravissime (Lett. Enc. “Nobilissima Gallorum”, 10 febbraio 1884): “Sia intangibile presso i sacerdoti l’autorità dei propri Vescovi; si persuadano che il ministero sacerdotale, se non si eserciti sotto la direzione del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né rispettabile”.
VI.
Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre prescrizioni, se non si osservino a dovere e con fermezza? Perché questo si ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi dell’Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell’Umbria, nov. 1849, tit. II, art. 6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: “Ad estirpare – così essi – gli errori già diffusi e ad impedire che più oltre si diffondano o che esistano tuttavia maestri di empietà, pei quali si perpetuino i perniciosi effetti originati da tale diffusione, il sacro Congresso, seguendo gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti il vigilare se e con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e farne avvertito il Vescovo perché di concorde avviso prenda rimedi con cui il male si estingua fin dal principio e non si spanda di vantaggio a rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si afforzi e cresca”. Stabiliamo adunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno colle stesse norme già prescritte pei Censori dei libri. Ogni due mesi, in un giorno determinato, si raccoglierà in presenza del Vescovo: le cose trattate o stabilite saranno sottoposte a legge di secreto. I doveri degli appartenenti al Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gl’indizi di modernismo tanto nei libri che nell’insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è d’uopo per la incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): “Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che ispirandosi a malsana novità sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a nuovi orientamenti della vita cristiana, a nuove direzioni della Chiesa, a nuove ispirazioni dell’anima moderna, a nuova vocazione del clero, a nuova civiltà cristiana”. Tutto questo non si sopporti così nei libri come dalle cattedre. Non trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o delle sacre Reliquie. Non per mettano che tali questioni si agitino nei giornali o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioni che sappiano di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni risolute specialmente, come il più delle volte accade, quando ciò che si afferma o non passa i termini della probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacre Reliquie si abbiano queste norme. Se i Ve scovi i quali sono soli giudici in questa materia, conoscano con certezza che una reliquia sia falsa, la toglieranno senz’altro dal culto dei fedeli… Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi, o pei civili rivolgimenti o in altra guisa siensi smarrite, non si esponga alla pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione. L’argomento di prescrizione o di fondata presunzione allora solo avrà valore quando il culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel 1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini: “Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero, se pure in casi particolari non si abbiano argomenti certi che sono false o supposte”. Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non perciò ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent’anni addietro (Decreto 2 maggio 1877): “Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei testimoni e documenti”. Niun timore può ammettere chi a questa regola si tenga. Imperocché il culto di qualsivoglia apparizione, in quanto riguarda il fatto stesso e dicesi relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto: in quanto poi è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie. Commettiamo infine al Consiglio di vigilanza, di tener d’occhio assiduamente e diligentemente gl’istituti sociali come pure gli scritti di questioni sociali affinché nulla vi si celi di modernismo, ma ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.
VII.
Le cose fin qui stabilite affinché non vadano in dimenticanza, vogliamo ed ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla pubblicazione delle presenti Lettere, e poscia ogni triennio, con diligente e giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono esenti dall’autorità dell’Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali degli Ordini religiosi a riguardo dei loro dipendenti.
Queste cose, o Venerabili Fratelli, abbiam creduto di scrivervi per salute di ogni credente. I nemici della Chiesa certamente ne abuseranno per ribadire la vecchia accusa, per cui siamo fatti passare come avversi alla scienza ed al progresso della civiltà. A tali accuse, che trovano smentita in ogni pagina della storia della Chiesa, alfine di opporre alcun che di nuovo, è Nostro consiglio di accordare ogni favore e protezione ad un nuovo Istituto, da cui, coll’aiuto di quanti fra i cattolici sono più insigni per fama di sapienza, ogni fatta di scienza e di erudizione, sotto la guida ed il magistero della cattolica verità, sia promossa. Assecondi Iddio i Nostri disegni e Ci prestino aiuto quanti di vero amore amano la Chiesa di Gesù Cristo. Ma di ciò in altra opportunità. A Voi intanto, o Venerabili Fratelli, nella cui opera e zelo sommamente confidiamo, imploriamo di tutto cuore la pienezza dei lumi Celesti, affinché in tanto periglio delle anime per gli errori che da ogni banda s’infiltrano, scorgiate quel che far vi convenga; e con ogni ardore e fortezza lo eseguiate. Vi assista colla Sua virtù Gesù Cristo autore e consumatore della nostra fede; vi assista coll’intercessione e coll’aiuto la Vergine Immacolata profligatrice di tutte le eresie.
E Noi, come pegno della Nostra carità e delle divine consolazioni fra tante contrarietà, impartiamo con ogni affetto a voi, al vostro clero ed ai vostri fedeli l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 Settembre 1907, nell’anno V del Nostro Pontificato.
Pio PP. X
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