PERCHÉ DICIAMO LA MESSA IN LATINO
Sodalitium n° 30 – giugno-luglio 1992
di don Francesco Ricossa
“Domenica 7 marzo, Paolo VI ha celebrato la Messa vespertina nella chiesa di Ognissanti, in italiano” (1). In quel giorno, prima domenica di Quaresima del 1965, per la prima volta, la Messa non era più celebrata in latino, ma in lingua volgare.
Commenta Mons. Bugnini, principale artefice della riforma liturgica: “Quel 7 marzo divenne una data storica della riforma liturgica ed una sua pietra miliare. Era un primo frutto tangibile del Concilio ancora in pieno svolgimento, l’inizio di un processo di accostamento della liturgia alle assemblee partecipanti, del suo cambiamento di aspetto, dopo secoli di intangibile uniformità” (2).
Fu solo, quattro anni dopo, il 30 novembre 1969, prima domenica d’Avvento, che fu introdotto un nuovo rito (Novus Ordo Missæ), “impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della santa Messa” (3) per i Cardinali Ottaviani e Bacci, “ammirazione delle altre chiese e comunità cristiane”, per Mons. Bugnini… (4).
Molti pensano ingenuamente che il nuovo rito, quello di Paolo VI, sia semplicemente la traduzione in lingua volgare di quello precedente.
Si tratta in realtà di due testi quasi totalmente diversi: la Messa codificata da S. Pio V (5) è il risultato dell’evoluzione e del continuo arricchimento del rito romano, dai tempi delle catacombe fino ad oggi; il rito di Paolo VI è stato invece creato a tavolino dai liturgisti del “Consilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia” in collaborazione con i rappresentanti delle “chiese” protestanti (6), nello spirito ecumenista del Vaticano II.
Alcuni movimenti di salvaguardia del latino e del canto gregoriano, pur perfettamente consci della diversità esistente tra rito tradizionale tradotto e rito moderno (modernista), si accontentarono di difendere l’uso della lingua latina nella liturgia, chiedendo ed ottenendo (raramente) delle Messe in latino, magari col nuovo rito.
Di fronte a questa attitudine, i veri fedeli della tradizione reagirono violentemente. Fu il povero Don Bellucco, ad esempio, che, pur essendo eccellente latinista, fece notare come si potesse bestemmiare anche in latino… Della “Messa” di Paolo VI in latino non sappiamo cosa farcene.
Per sottolineare vieppiù questo rifiuto e questa giusta reazione, alcuni utilizzano frasi paradossali, del genere: “preferisco la Messa di S. Pio V in bantù, che la nuova Messa in latino”. L’espressione fa il suo effetto, ma è un po’ infelice; se poi si giunge a dire che non ha nessuna importanza il fatto che la Messa (e gli altri riti liturgici) siano celebrati in latino o in volgare, si va (inconsapevolmente?) contro la legge e l’insegnamento della Chiesa. Ha dichiarato, infatti, Pio XII: “Sarebbe tuttavia superfluo il ricordare ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente nel rito latino (7) l’obbligo per il sacerdote celebrante di usare la lingua latina, come pure di esigere, quando il canto gregoriano accompagna il Santo Sacrificio, che questo si eseguisca nella lingua della Chiesa” (8).
Vediamo pertanto assieme quali sono le serie ragioni di cui parla Pio XII.
I. Necessità di una lingua sacra
Non esiste religione che non distingua ciò che è sacro da ciò che è profano. Ciò che è sacro è, per l’appunto, consacrato a Dio, riservato a Lui, e sottratto, di conseguenza, all’uso profano. Nel culto divino, specialmente, vi sono luoghi sacri (le chiese), riti sacri, oggetti sacri, paramenti sacri. La lingua non fa eccezione. Già “in seno al paganesimo, gli antichi romani avevano capito l’immobilità della preghiera pubblica. Quintiliano ci informa che i versetti cantati dai sacerdoti sàlii risalivano ad una così alta antichità che li si capiva con difficoltà, e tuttavia la maestà della religione non aveva permesso che fossero cambiati. Abbiamo visto che gli ebrei, prima del cristianesimo, nelle loro assemblee religiose, leggevano la legge e le preghiere del culto in lingua ebraica, benché questa lingua non fosse più capita dal popolo. Non è forse rifiutare l’evidenza – conclude Dom Guéranger, abate di Solesmes – non riconoscere, in tutti questi fatti l’espressione di una legge di natura in accordo col genio della religione?” (9).
Le religioni pagane, come la Religione rivelata dell’antico testamento, si sono comportate come farà in seguito la Chiesa Cattolica: hanno utilizzato nella liturgia una lingua sacra, ritirata dall’uso profano, immutabile. La storia delle chiese orientali (generalmente scismatiche) che hanno seguito piuttosto l’uso della lingua volgare nella liturgia, non smentisce la nostra affermazione ma, piuttosto, la conferma involontariamente.
Difatti, pur non adottando, come la Chiesa di rito latino, il principio della lingua sacra, le Chiese orientali hanno subito il medesimo, universale fenomeno della sacralizzazione della lingua liturgica. La lingua copta, l’armena, l’etiopica, la slavonica “appena hanno sentito il contatto dei misteri dell’altare, sono diventate immobili ed imperiture” (9) per cui, anche le Chiese orientali “celebrano, al pari di noi, il servizio divino in una lingua che non è più capita dal popolo” (9). Al contatto dell’altare, queste lingue si sono “sacralizzate”.
Appare pertanto evidente che sopprimere l’uso di una lingua sacra dalla liturgia equivale a profanarla, andando in questo modo contro la natura e l’indole stessa della religione.
II. La provvidenza ha preparato per la Chiesa tre lingue sacre
Ma non tutte le lingue sono egualmente sacre.
Sempre Dom Guéranger, autorità indiscussa in campo liturgico, constata, al seguito dei Padri della Chiesa e dei mistici medioevali, l’esistenza di “lingue sacre e separate dalle altre da una scelta divina, per servire da intermediario tra il Cielo e la terra” (10).
Se è indubitabile il fatto che la Chiesa abbraccia ed accoglie tutti i popoli, è altrettanto certo che la Provvidenza ha voluto prima rivelarsi al solo popolo ebraico, per poi fissare la sede del vicario di Cristo nella città di Roma. Il cristianesimo, per libera scelta di Dio, è erede della tradizione ebraica, greca e latina.
Così, pure, scriveva già nel IV secolo sant’Ilario di Poitiers “è principalmente in queste tre lingue (ebraica, greca e latina) che il mistero della volontà di Dio è manifestato; ed il ministero di Pilato fu di scrivere anticipatamente in queste tre lingue che il Signore Gesù Cristo è il Re dei Giudei” (10). Ebraico (siriaco), greco e latino sono le tre lingue dell’iscrizione della Croce; sono altresì le tre lingue della Sacra Scrittura; “sono state le sole di cui ci si sia serviti all’altare” nei primi quattro secoli (11) “il che dona loro una dignità liturgica particolarissima e conferma meravigliosamente il principio delle lingue sacre e non volgari nella liturgia” (11).
Che sia il latino pertanto una “lingua sacra” è cosa così indubitabile che persino Paolo VI, il giorno stesso in cui lo eliminava dalla liturgia, lo ha esplicitamente riconosciuto (17 marzo 1965) (1). Sapeva quindi, eliminando il Sacro, di fare un’opera di profanazione.
III. Il latino unisce alla Chiesa di Roma
“La lingua propria della Chiesa Romana è la latina” (S. Pio X, Tra le sollicitudini, 22/11/1903) (12)
“Gesù Cristo scelse per sé e consacrò la sola città romana. È qui che volle restasse in perpetuo la sede del suo Vicario” (Leone XIII) (13). Non a caso, quindi, ma per “mirabile disposizione di Cristo” (Papa Gelasio) (14), san Pietro scelse Roma come sede episcopale del Principe degli Apostoli. La Chiesa è dunque Romana.
La provvidenza che ha scelto Roma, ha scelto anche per la Chiesa la sua lingua, la lingua latina. “Il Signore – disse il Cardinal Ottaviani – ha dato un mezzo provvidenziale per mantenere la tradizione e la verità Cattolica; le ha fornito un linguaggio che è tutto speciale, la lingua latina. Il destino di Roma (…) era anche preparato con un elemento che sembrerebbe accidentale ma che è importantissimo: una lingua, la lingua latina…” (15).
L’uso della lingua latina unisce quindi le diocesi che ne fanno uso, nel mondo intero, alla Chiesa Romana ed alla sede dell’Apostolo Pietro.
Certo l’uso della lingua latina non è obbligatorio per tutta la Chiesa Universale, ma solo per quella occidentale: le Chiese orientali cattoliche manifestano altrimenti che col latino il loro legame con Roma.
Tuttavia, vi è un fatto indiscutibile che emerge dalla storia dello scisma orientale. Le nazioni slave ove era stata adottata la lingua slava nella liturgia, seguirono quasi completamente lo scisma. Al contrario, le nazioni slave che conservarono la lingua latina, restarono unite a Roma (Cecoslovacchia, Croazia, Slavonia e, soprattutto, la Polonia). Per questo Dom Guéranger elogia l’azione di papa san Gregorio VII al proposito: « Il duca di Boemia, Vratislao, gli aveva chiesto di poter estendere ai suoi popoli, anch’essi di razza slava, la dispensa che Giovanni VII aveva accordato per la Moravia. Gregorio rifiutò con fermezza e, senza accusare il suo predecessore, né ritornare su di un fatto compiuto, proclamò i princìpi della Chiesa sulle lingue liturgiche: “Quanto a ciò che avete chiesto – scrisse a questo prìncipe in una lettera dell’anno 1080 – desiderando il nostro consenso per fare celebrare nel vostro paese l’ufficio divino in lingua slava, sappiate che non possiamo accedere in alcun modo alla vostra domanda. (…) Non è una scusa dire che alcuni uomini religiosi (S. Cirillo e S. Metodio) hanno subito con condiscendenza i desideri di un popolo semplice, o non hanno giudicato a proposito portarvi rimedio; la Chiesa primitiva stessa ha dissimulato molte cose che i santi Padri hanno corretto dopo averle sottomesse ad un serio esame. Per cui, con l’autorità del Beato Pietro, vi proibiamo di mettere in pratica quanto ci domandano i vostri con imprudenza e, per l’onore di Dio onnipotente vi ingiungiamo di opporvi con tutte le vostre forze, a questa vana temerità”. In poche parole, san Gregorio VII enunciava con piena energia il pensiero della Chiesa, che è sempre stato quello di non esporre il mistero senza veli agli occhi del volgo; scusava la concessione fatta prima di lui e proclamava quel principio, così frequentemente applicato, che le necessità che si sono presentate agli inizi della Chiesa non possono prudentemente diventare una legge per i secoli seguenti…
La fede cristiana regnava in Boemia; vi si era stabilita e mantenuta con la liturgia latina; introdurre in questa Chiesa l’uso della lingua volgare equivaleva a farla indietreggiare alle condizioni dell’infanzia.
Spingendo le frontiere della lingua latina fino alla Boemia, san Gregorio VII la faceva avanzare fino alla Polonia, la quale, restando latina, veniva consacrata come baluardo cattolico dell’Europa verso l’Asia » (16).
La pseudo-riforma protestante confermerà, come vedremo, il medesimo principio: l’abbandono della comunione con Roma coinciderà con la sostituzione, nel culto protestante, del latino con la lingua nazionale.
IV. Una lingua universale per la Chiesa Universale
All’argomento fondato sul fatto che la Chiesa è romana, è strettamente collegato quello fondato sull’universalità della Chiesa. Scrive Romano Amerio: “In primo luogo adunque la Chiesa è universale, e l’universalità sua non è puramente geografica né consiste, come si dice nel nuovo canone, nell’essere diffusa su tutta la terra. È un’universalità derivante dalla vocazione, tutti gli uomini essendo vocati, e del suo nesso col Cristo che stringe e aduna in sé tutto il genere umano. (…) Essa (…) non può accettare l’idioma di una gente particolare, sfavorendo le altre” (17).
“La Chiesa – scrisse Pio XI – abbracciando nel suo seno tutte le nazioni (…) esige per la sua stessa natura una lingua universale…” (Ep. Ap. Officiorum Omnium, 1 agosto 1922. AAS. 14, 1922, 452).
Per questo la lingua latina può essere veramente chiamata “cattolica” (che vuol dire universale) secondo l’espressione dello stesso Pio XI nel documento citato (AAS. 14, 1922, 452).
Al contrario, lo scisma orientale e la pseudo-riforma protestante, rompendo l’unità cattolica, hanno creato “chiese” autocefale e nazionali. E come la Chiesa Cattolica esige “per sua natura” una lingua universale, così le “chiese” nazionali, per propria natura, adottano la lingua nazionale, come si constata presso gli “ortodossi”, i protestanti ed i settari del Vaticano II.
V. Una lingua “una” per una Chiesa “una”
La Chiesa è una: “Et unam, Sanctam, Catholicam, et apostolicam Ecclesiam”. La sua unità è strettamente collegata alla sua universalità (“cattolica”), ed il centro di questa unità è la sede di Pietro, Vescovo di Roma. La lingua latina, universale e romana, è pertanto vincolo di unità. Lo attesta Pio XII: “L’uso della lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità” (Enciclica Mediator Dei, 20/XI/ 1947) (18). Al contrario, l’adozione della lingua nazionale nella liturgia è spesso fonte di scontro e di divisione tra i popoli; è l’elemento disgregatore non solo a livello religioso ma anche a livello civile. Basti pensare a quei paesi divisi da conflitti etnici, nei quali i fedeli cattolici un tempo tutti uniti intorno all’altare, assistono al culto in chiese diverse, secondo la lingua che è utilizzata.
Un caso recentissimo è quello di Trieste, ove alcuni hanno protestato contro l’introduzione dello slavo a fianco dell’italiano nel culto presieduto da Giovanni Paolo II durante la visita a questa città. L’altare univa, il tavolo (liturgico) divide. Se così è nella società civile, il fenomeno è più grave in quella religiosa.
Non solo la pseudo-riforma protestante ha fatto nascere delle “chiese nazionali” divise tra loro nel dogma e nella disciplina come nella lingua liturgica: anche la pseudo-riforma del Vaticano II ha intaccato la mirabile unità dogmatica, disciplinare e liturgica propria alla vera Chiesa Cattolica.
Ogni paese stretto intorno alla propria conferenza episcopale (spesso riottosa nei confronti del “centro”), celebra ormai la liturgia in una lingua estranea a quella degli altri paesi e a quella di Roma stessa.
In molti di questi paesi, in Africa, in America latina, in Asia, “l’inculturazione” voluta dal Vaticano II ha immesso nel culto elementi pagani che la predicazione del Vangelo aveva fatto scomparire. Ovunque, anche a livello liturgico, si assiste al medesimo fenomeno di disgregazione dell’unità che caratterizza sempre lo scisma e l’eresia. L’abolizione del latino è certo stata “una pietra miliare” (Bugnini) verso questo processo di disgregazione dell’unità. La confusione delle lingue decretata da Dio per punire l’orgoglio degli uomini nel costruire la torre di Babele, era come sanata dall’uso del latino, la “lingua cattolica”, nella Chiesa di Cristo. Oggi, l’orgoglio della “chiesa conciliare” che ha proclamato “il culto dell’uomo” (Paolo VI) è stato castigato nuovamente (anche) con la confusione delle lingue, confusione che, parafrasando Pio XII, potremmo chiamare “mirabile segno di disunità”.
VI. Una lingua immutabile per una Chiesa immutabile
Riprendiamo la citazione di Pio XI: “difatti la Chiesa abbracciando nel suo seno tutte le nazioni, ed essendo destinata a durare sino alla fine dei secoli, esige per la sua stessa natura una lingua universale, immutabile, non popolare” (Officiorum Omnium). Commenta Romano Amerio: “In secondo luogo la Chiesa è, nella sua sostanza, immutabile e perciò essa si esprime con una lingua in qualche modo immutabile, sottratta (relativamente, e più di ogni altra) all’alterazione delle lingue usuali, alterazione così celere che tutti gli idiomi europei oggi parlati hanno bisogno di glossari per poter intendere le opere letterarie dei propri primordi. La Chiesa ha bisogno invece di una lingua che risponda alla sua condizione intemporale e sia priva di dimensione diacronica…” (17).
Il latino, specialmente liturgico, è per l’appunto una lingua, per quanto possibile immutabile. Risponde così alle esigenze di una lingua sacra (vedi quanto detto precedentemente). Di più è segno dell’eternità partecipata della Chiesa e della irreformabilità del suo insegnamento. Ha infine, un duplice vantaggio pratico: il primo, segnalato dall’Amerio, è quello di sfuggire alle continue revisioni indispensabili per le lingue vive, le quali, dopo qualche decennio diventano se non incomprensibili, almeno antiquate.
Il secondo, ben più importante, è segnalato ancora da Pio XII: “L’uso della lingua latina (…) – egli dice – è… un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina” (18). Il proverbio stesso lo ricorda: “traduttore, traditore”. Anche involontariamente, una traduzione deforma più o meno il testo tradotto. Quanto più se il traduttore è animato dall’intenzione di deformare. J. Renié (Missale Romanum et missel romain, Paris 1975), Romano Amerio (Iota unum, Milano – Napoli 1985. nn. 280-282, pp. 520-525) e molti altri, hanno provato che il “nuovo messale” nelle lingue volgari deforma il già eterodosso “Missale romanum” riformato da Paolo VI, fino ad alterare la stessa formula di consacrazione (“pro multis” che diventa “per tutti”) (18 bis).
VII. La lingua nobile ed eletta
Pio XI (ripreso punto per punto da Giovanni XXIII nella Cost. Ap. Veterum sapientia, del 23 febbraio 1962) (19) afferma infine che “la Chiesa… esige per sua natura una lingua… non popolare (non volgare)” (Ep. Ap. Officiorum Omnium). “Siccome poi la Chiesa Cattolica, perché fondata da Cristo Signore supera di gran lunga in dignità tutte le società umane, è giusto che non si serva di una lingua popolare, bensì nobile ed augusta” (Giovanni XXIII, ibid.). Vi è una lingua per ogni luogo e situazione: il lessico famigliare non è il linguaggio giuridico, il gergo di un gruppo sociale o il colorito dialetto non è usato in riunioni accademiche… non si vede perché solo il rito sacro per eccellenza non abbia diritto ad una lingua sua propria che, per l’eccellenza divina dei misteri che si celebrano, deve essere nobile e regale, quale la lingua latina e quale il canto gregoriano, impraticabile senza questa medesima lingua.
VIII. Le obiezioni confermano la tesi: l’altare ed il pulpito
Si obietta: “Se la Messa è detta in latino, il popolo non capisce. È molto meglio adesso, che si capisce tutto”.
È il pretesto invocato dagli autori della riforma liturgica per eliminare l’uso del latino non solo dalla liturgia della Messa, ma persino dalla recita privata o corale dell’ufficio divino. Analogamente, sono state soppresse dalla liturgia della Messa le rubriche che imponevano la recita a voce bassa delle parti più importanti della liturgia, come l’Offertorio ed il Canone, incluse le formule della Consacrazione (20). Tutto deve essere udibile (no alle preghiere segrete) tutto deve essere comprensibile (no alle preghiere in latino). In realtà il problema non consiste nel dilemma: udire – non udire, capire – non capire (tanto più che i messalini, traduzioni ecc. ovviano abbondantemente al “problema”) ma, piuttosto, nella diversa concezione della Messa che è sottintesa dal nuovo e dall’antico “Ordo Missæ”.
Nessuno ignora che, nella concezione protestante, il culto è essenzialmente predicazione, insegnamento, lettura della Scrittura. È evidente, pertanto, l’esigenza di parole udibili e facilmente comprensibili.
Per la Chiesa Cattolica invece, la Messa, pur non mancando di un’aspetto istruttivo, è essenzialmente il Santo Sacrificio offerto a Dio sull’altare. Offerto a Dio, esso non necessita, come il culto protestante, di essere sempre ed innanzitutto, pienamente udibile e comprensibile dai fedeli.
Per questo il Concilio di Trento insegna che la Messa non deve essere celebrata in volgare, ma che quanto si è letto in essa deve essere spiegato ai fedeli nella predicazione, specialmente la domenica e nei giorni festivi (cfr. Sess. XXII, Cap. VIII). Commenta Dom Guéranger: “È necessario, a questo punto, fare una distinzione capitale: la distinzione tra il pulpito e l’altare.
Sul pulpito, la lingua volgare è indispensabile; sull’altare se ne può fare a meno, anche agli inizi di una cristianità, come è comprovato da fatti innumerevoli” (21). «Il protestantesimo ha distrutto la religione abolendo il sacrificio, per esso l’altare non esiste più; non c’è più che una tavola; il suo cristianesimo si è conservato unicamente nel pulpito.
La Chiesa Cattolica, senza dubbio, si gloria della Cattedra di verità, poiché “la fede viene dall’udito” (Rom. X, 17). Dall’alto di questa Cattedra essa proclama la dottrina immutabile e vittoriosa, nella lingua del popolo che l’ascolta; ma la sua missione non è unicamente d’istruire questo popolo. Se gli rivela le verità divine, è per unirlo a Dio mediante i misteri dell’altare; dopo aver illuminato la sua fede, lo mette in comunicazione con Dio mediante l’amore.
Quando ha fatto nascere in lui il desiderio del bene infinito, in presenza del quale non c’è né saggio né ignorante, risale, come Mosè, sulla Montagna, e la sua voce cessa di farsi udire dalle orecchie, per non risuonare più che nei cuori” (22)».
IX. Le obiezioni confermano la tesi: le letture bibliche in lingua volgare
Almeno, si dice, bisognerebbe leggere sempre le letture bibliche (Epistola, Vangelo) in lingua volgare; esse fanno parte, difatti, della parte della Messa dedicata all’istruzione dei fedeli.
Questo argomento fa breccia persino tra i tradizionalisti: sono moltissime le Messe durante le quali le letture sono fatte esclusivamente in lingua volgare, adottando in questo la riforma di Paolo VI, ed io stesso ricordo le pressioni e le insistenze di Mons. Lefebvre perché anche in Italia adottassimo questo uso. Dom Guéranger, fedele difensore della liturgia cattolica, non era del medesimo parere: per lui, uno degli inconvenienti della recita a voce alta del canone era quello di aprire le porte alla lettura in volgare della Bibbia: “se si leggeva il canone a voce alta, il popolo avrebbe chiesto che lo [si] leggesse in francese; se la liturgia e la Sacra Scrittura si leggevano in lingua volgare, il popolo sarebbe diventato giudice dell’insegnamento della Fede sulle questioni controverse…” (23). Le parole di Dom Guéranger possono stupire o, peggio ancora scandalizzare, solo il cattolico ignaro della propria religione. L’abate di Solesmes, infatti non fa che ripetere la dottrina della Chiesa in proposito.
Infatti la quarta regola dell’Indice dei libri proibiti, publicata su ordine del Concilio di Trento, recita: “Poiché è evidente con l’esperienza, che se si permette la Sacra Bibbia in lingua volgare senza le debite precauzioni, essa diventa, a causa della temerarietà degli uomini, più dannosa che utile; ci si attenga, a questo proposito, al giudizio del Vescovo o dell’Inquisitore, in modo tale che si possa concedere, col consiglio del parroco o del confessore, la lettura della Bibbia tradotta in volgare da dei cattolici, solo a coloro i quali saranno riconosciuti capaci di ricevere da questa lettura un aumento della Fede e della devozione, e non un danno, e questo permesso deve essere messo per iscritto.
Chi invece presumesse tenere presso di sè o leggere [la Bibbia in volgare] senza questa facoltà, non potrà essere assolto dai peccati se prima non ha consegnato la Bibbia all’ordinario…”.
Sono queste precauzioni del Concilio di Trento che provocarono le tesi dell’oratoriano Quesnel (1634-1719), settatore dell’eresia giansenista. Ecco la tesi del Quesnel sulla lettura della Bibbia, condannate da papa Clemente XI nella Costituzione dogmatica “Unigenitus” (8 sett. 1713):
« 79° tesi: È utile e necessario in tutti i tempi, in ogni luogo e per ogni genere di persona, studiare e conoscere lo spirito, la pietà ed i misteri della Sacra Scrittura.
80°: La lettura della Sacra Scrittura è per tutti.
81°: L’oscurità santa della parola di Dio non è un motivo per i laici per dispensarsi dalla sua lettura.
82°: La domenica deve essere santificata dai cristiani con le letture di devozione e soprattutto della Sacra Scrittura. È dannoso volere ritrarre il cristiano da questa lettura.
83°: È un’illusione persuadersi che la conoscenza dei misteri della religione non debba essere comunicata alle donne con la lettura dei libri sacri. L’abuso delle Scritture e le eresie non sono nati dalla semplicità delle donne ma dalla scienza orgogliosa degli uomini.
84°: Togliere dalle mani dei cristiani il Nuovo Testamento o tenerglielo chiuso, togliendo loro il modo di capirlo [a causa del latino] vuol dire chiudere la bocca a Cristo.
85°: Vietare ai cristiani la lettura della Sacra Scrittura, specialmente del Vangelo, vuol dire vietare l’uso della luce ai figli della luce e far che patiscano una certa qual sorta di scomunica »
(Denz. 1429-1435).
Questo semplice ricordo della dottrina cattolica (negata da queste sette tesi di Quesnel) ci fa capire quanta strada (verso il protestantesimo) è stata compiuta col Vaticano II. Scrive l’Amerio: “Il Concilio [Vaticano II] infatti superò i decreti antigiansenistici e le prescrizioni di PioVI. Contro la popolarizzazione protestantica e giansenistica della Scrittura Pio VI stabiliva che la lettura della Bibbia non è necessaria né conveniente a tutti (Denz. 1507 e 1429). Il Concilio invece (DV, 25) [Dei Verbum] raccomanda caldissimamente a tutti i fedeli la frequente lezione della Bibbia” (24).
Si vede subito come, a meno di accettare l’ottica giansenista e protestante, non si possa leggere indiscriminatamente la Sacra Scrittura in volgare al popolo. Chi dice che durante la Messa almeno le letture devono essere fatte in volgare e non in latino, non sa quel che dice… Leggere in volgare (dopo la lettura in latino) è possibile solo se il sacerdote spiega, in seguito, il significato esatto di quanto si è letto. Questo solo argomento, sarebbe quindi sufficiente a rifiutare l’introduzione del volgare nella liturgia.
X. La liturgia in lingua volgare è stata sempre voluta dagli eretici
Stiamo esponendo le “gravi ragioni” per le quali la Chiesa rifiuta l’introduzione del volgare nella liturgia, con la conseguente pratica abolizione del latino.
Non è da trascurare quest’ultimo argomento: chi propugna l’introduzione delle lingue popolari nella liturgia, si trova in compagnia di tutti gli eretici.
Ricordava dom Guéranger nel 1878 come ottavo punto “dell’eresia antiliturgica”: “Poiché la riforma liturgica ha come uno dei suoi scopi principali l’abolizione degli atti e delle formule mistiche, ne segue necessariamente che i suoi autori dovevano rivendicare l’uso della lingua volgare nel servizio divino. È questo uno dei punti più importanti agli occhi dei settari. Il culto, dicono, non è una cosa segreta. Bisogna che il popolo capisca ciò che canta. L’odio della lingua latina è innato nel cuore di tutti i nemici di Roma. Vedono in essa il bene dei cattolici nel mondo intero, l’arsenale dell’ortodossia contro tutte le sottilità dello spirito di setta, l’arma più potente del Papato” (25).
Furono favorevoli alla lingua volgare nella liturgia gli scismatici orientali. Lo furono nel XII secolo i Valdesi ed i Catari: “Questi settari, ricorda Dom Guéranger, che pretesero per primi la libera interpretazione della Bibbia, furono anche i primi a protestare contro la lingua liturgica ed a celebrare i misteri ed i sacramenti in lingua volgare. Fecero di questa pratica uno degli articoli fondamentali della loro setta…” (26). Dopo di loro vennero Wiclef in Inghilterra, e Huss in Boemia. Erasmo da Rotterdam fu censurato dall’università della Sorbona per aver giudicato “cosa sconveniente e ridicola” vedere gli ignoranti pregare “senza capire ciò che pronunciano” (27). “Questa proposizione – secondo i teologi della Sorbona – (…) è empia, erronea ed apre la strada all’errore dei Boemi che hanno voluto celebrare l’ufficio ecclesiastico in lingua volgare…” (26).
Tutti conoscono la posizione di Lutero e degli altri protestanti al riguardo che, anche a questo proposito, furono condannati dal Concilio di Trento (Denz. 956). Il pastore protestante Rilliet, parlando dello schema conciliare (del Vaticano II, ovviamente) sulla liturgia, scrisse: “L’adozione nella liturgia della lingua popolare è conforme ai nostri proprii princìpi” (27).
I giansenisti non furono da meno. Pasquier-Quesnel fu condannato per aver sostenuto che “togliere al popolo semplice [con l’uso del latino nella liturgia, n.d.a.] questa consolazione di unire la propria voce con quella di tutta la Chiesa è un uso contrario alla prassi apostolica ed all’intenzione di Dio” (Proposizione 86, Denz. 1436). Il conciliabolo di Pistoia, voluto dal Vescovo giansenista Scipione de’ Ricci, aveva auspicato “una maggiore semplicità dei riti, esponendoli in lingua volgare e proferendoli ad alta voce” poiché l’uso contrario della Chiesa veniva, secondo il sinodo, dalla dimenticanza dei princìpi della liturgia. Papa Pio VI condannò questa pretesa come “temeraria, offensiva delle orecchie pie, ingiuriosa per la Chiesa, favorevole agli schiamazzi degli eretici contro di essa” (Denz. 1533). La stessa bolla “Auctorem fidei” di Pio VI condannò altresì un’altra proposizione del sinodo di Pistoia che riprendeva Terrore di Quesnel. Dicevano i giansenisti essere “contrario alla pratica degli Apostoli ed ai disegni di Dio di non fornire al popolo il mezzo più facile di unire la propria voce a quella di tutta la Chiesa”. Questa affermazione, scrive Pio VI, “intesa nel senso di introdurre l’uso della lingua volgare nelle preghiere liturgiche è falsa, temeraria, perturbativa delle regole prescritte per la celebrazione dei misteri, facile causa di moltissimi mali” (Denz. 1566).
Un cattolico, che ama istintivamente tutto quanto viene dalla Chiesa, e fugge altrettanto spontaneamente tutto quanto ricorda l’eresia, non può desiderare ciò che la Chiesa ha sempre avversato e gli eretici hanno sempre voluto: la sostituzione del latino con le lingue volgari nella liturgia.
XI. Abolizione del latino nella riforma conciliare: le sue tappe
Abbiamo analizzato due posizioni coerenti nei secoli: quella cattolica, in favore del latino; quella degli eretici, sempre contraria. In quale dei due filoni s’inseriscono le riforme conciliari e postconciliari? Evidentemente, come su temi ben più importanti, in quello non cattolico.
La Costituzione conciliare “Sacrosantum Concilium” sulla Sacra Liturgia, approvata il 4 dicembre 1963, fu il primo documento del Vaticano II, e la questione liturgica fu la prima ad essere trattata nell’aula conciliare.
Già in sede di preparazione degli schemi conciliari, i cattolici ed i riformisti si diedero battaglia sulla liturgia. Padre Wiltgen s.v.d. riferisce il dramma del Cardinale Gaetano Cicognani, fratello del Card. Amleto, segretario di stato di Giovanni XXIII.
Presidente della commissione preconciliare sulla liturgia, il Card. Gaetano Cicognani, in accordo con la Congregazione dei riti, si rifiutava di firmare lo schema preparatorio. Ora, la sua firma era indispensabile, e Giovanni XXIII, con Bugnini, volevano che sottoscrivesse il rivoluzionario documento. « Giovanni XXIII chiamò il suo segretario di stato e lo pregò di andare a trovare il fratello, e di non tornare che con lo schema debitamente firmato. Il 1 febbraio 1962 il segretario di stato andò quindi a trovare suo fratello nel suo ufficio; vi trova Mons. Felici ed il P. Bugnini nel corridoio, e informò suo fratello del desiderio del Sommo Pontefice. Più tardi, un esperto della commissione preconciliare sulla liturgia affermò che il vecchio Cardinale tratteneva a stento le lacrime, e che agitava il documento dicendo: “Mi vogliono far firmare questo, non so che fare”. Poi posò il testo sulla scrivania, prese una penna e firmò. Quattro giorni più tardi era morto » (28).
Lo schema arrivò in Concilio, passando sul cadavere di Cicognani, e venne discusso a partire dal 22 ottobre 1962, per essere approvato complessivamente nel novembre. Fin dalle prime battute si affrontarono i Vescovi “romani” (fedeli al latino) e quelli “antiromani”, contrari. Da un lato Dante, Bacci, Staffa, Parente, Ottaviani, dall’altro Zauner, Frings, Maximos IV, Montini (29). Fu in questa occasione che il Cardinale olandese Alfrink, applaudito dai Padri conciliari, tolse la parola, staccando il microfono, al semi-cieco Cardinale Ottaviani (30 ottobre 1962) (30). Uno dei Padri della costituzione conciliare, Mons. Zauner, Vescovo di Linz, espose i quattro grandi princìpi del documento:
1°« “Il culto divino deve essere un’azione comunitaria; vale a dire che il Sacerdote deve fare tutto ciò che fa con la partecipazione attiva del popolo e mai solo”. Secondo lui, l’uso della lingua volgare era la condizione necessaria di tale partecipazione ».
2° “I fedeli devono essere direttamente arricchiti dalla Sacra Scrittura…”.
3° “Il culto liturgico non doveva unicamente aiutare i fedeli a pregare, ma anche ad insegnare…”.
4° “Laddove i costumi tribali non conportano elementi superstiziosi, possono ormai essere introdotti nella liturgia” (31).
« Mons. Zauner aggiunse poi che era “estremamente soddisfatto” della Costituzione sulla liturgia e che non aveva mai osato sperare “che si potesse andare così lontano” » (31). In effetti, i princìpi elencati ricalcano pari pari le tesi condannate dei protestanti e dei giansenisti.
La Costituzione conciliare si occupa di latino e lingue volgari al n. 36 per la liturgia in genere, ed al n. 54 per quella della Messa. Si prescrive la conservazione della lingua latina (n. 36 § 1) nei riti latini, ma si tratta di indorare la pillola… Il n. 36 § 2 prevede già “una parte più ampia” per il volgare, per poi dilagare “nell’ammissione ed estensione della lingua volgare” a richiesta dei Vescovi (36 § 3). Il volgare, di fatto, è voluto in tutte le parti della liturgia “spettanti al popolo” (36 § 2; 54) salvo “un uso più ampio” (n. 54), che lascia la porta aperta al seguito.
Il seguito non tarda a venire. Istituito il “Consilium” per l’applicazione della Costituzione conciliare sulla liturgia (29/2/1964) vengono date le prime norme con la istruzione “Inter Œcumenici” del 26 settembre 1964, compleanno di Paolo VI, mentre il
Concilio è ancora in pieno svolgimento. Restano in piedi, a quella data, il Prefazio ed il Canone, ancora in latino.
Il Prefazio in latino cade il 27 aprile 1965; il Canone il 4 maggio 1967, con l’Istruzione “Tres abhinc annos”. In 3 anni, appunto, del § 1 del n. 36 della “Sacrosantum Concilium” non resta più niente, ma ciò in conformità ai princìpi che espone lo stesso documento conciliare. Chi si appoggia sul Concilio per difendere il latino, si sostiene… sulle sabbie mobili!
Il solenne funerale del latino, infine, è celebrato da Paolo VI nel discorso del 27 novembre 1969, quando il “Novus Ordo Missæ” (la “nuova messa”) corona l’opera iniziata dal Concilio (32).
XII. Abolizione del latino nella rivoluzione liturgica conciliare: giudizio
La riforma conciliare e post-conciliare (attuata dagli organi vaticani competenti, ma sotto il controllo di Paolo VI e con la sua approvazione), ha rotto con una disciplina più che millenaria della Chiesa Cattolica, ribadita per “gravi ragioni” (Pio XII), dal concilio di Trento, da Clemente XI, Pio VI, S. Pio X, Pio XI, Pio XII e, seppur contraddittoriamente, da Giovanni XXIII.
Il motivo avanzato dal Concilio e da Paolo VI per questa progressiva ma decisa rottura (la partecipazione attiva dei fedeli impedita dal latino) (34) non differisce da quello, di ispirazione protestante, adottato da Quesnel e Scipione de’ Ricci, e già riprovato dalla Chiesa. Se non cade sotto l’anatema del Concilio di Trento contro chi afferma che la Messa deve essere detta in volgare (Sessione XII, canone IX) mi sembra almeno (pur essendo questo giudizio la mera opinione personale di chi scrive), che non sia azzardato qualificare la rottura operata di fatto anche in questa questione “secondaria” (in rapporto ad altre più gravi) col giudizio già manifestato in precedenza dalla Chiesa. Questa rottura, cioè, può essere qualificata come temeraria, offensiva, ingiuriosa per la Chiesa, favorevole agli schiamazzi degli eretici contro di essa, perturbatrice delle regole prescritte per la celebrazione dei misteri, facile causa di moltissimi mali.
La certezza che Paolo VI non era formalmente l’autorità (33), e che il Vaticano II non viene dalla Chiesa, certezza dovuta a ben più gravi decisioni di entrambi, ci mette al riparo dal gravissimo gesto, che avremmo compiuto altrimenti, di giudicare l’Autorità legittima della Chiesa.
XIII. Perché diciamo la Messa in latino?
Rispondo pertanto a chi ci potrebbe chiedere: “Perché dite la Messa in latino?”.
Semplicemente perché così lo vuole la Chiesa Cattolica, nelle sue rubriche liturgiche e nelle sue leggi canoniche (can. 819 e 1257). Semplicemente, perché siamo Sacerdoti cattolici di rito latino.
- Note
(1) Itinéraires n.93 mai 1965, p. 154.
(2) Annibale Bugnini, La riforma liturgica (1948- 1975), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 1983, p. 109.
(3) Lettera dei Cardinali Ottaviani e Bacci.
(4) In Notitiæ 92, aprile 1974, p.126. Citato da CELIER, La dimension œcumenique de la Reforme liturgique, Fideliter 1987 p.7.
(5) Dall’introduzione del “Novus Ordo Missae” (1969) sono state usate le espressioni più disparate per designare il Messale precedente: Messa di sempre, di S. Pio V, Tridentina, antica, in latino, ecc. A rigor di termini una sola espressione è corretta: Messale Romano, Rito romano. Infatti, per la Chiesa, la “nuova messa” il “nuovo messale” non esistono, in quanto atti nulli di chi non era (più) formalmente Papa. Tuttavia anche noi utilizziamo i termini sopra menzionati, anche se scorretti, per farci capire dai lettori.
(6) La collaborazione attiva, voluta da Paolo VI, di osservatori non cattolici (cioè eretici) alla riforma liturgica è ampiamente documentata da: Gregoire Celier, La dimension œcumenique de la Reforme liturgique, ed. Fideliter 1987, pp. 26-30.
(7) Nell’unica Chiesa Cattolica difatti si distinguono la Chiesa Latina e la Chiesa Orientale, che hanno riti e leggi diversi (cfr. Codice di diritto canonico, can.1).
(8) Pio XII, Discorso: Vous nous avez demandé, ai partecipanti del primo Congresso di liturgia pastorale, 22 sett. 1956. Insegnamenti pontifici – La liturgia, ed. Paoline 1959, n. 821 (13, 18).
(9) Dom Prosper Guéranger, Institutions Liturgiques (1840-1851) – Extraits établis par Jean Vaquié, DPF. Chiré-en-Montreuil, 1977, pp. 249-250.
(10) Guéranger, op. cit. p. 241.
(11) Guéranger, op. cit. p. 240.
Dom Guéranger ammette, ovviamente, che nei primi secoli siriaco, latino e greco erano lingue vive, e pertanto intellegibili dal popolo. “Solo il tempo – fa notare – può fare di una lingua volgare una lingua sacra: l’uomo non inventa le lingue a priori…” (p. 248).
Tuttavia “molti popoli, durante questi tre secoli, furono chiamati alla luce del Vangelo; ma poiché bisogna ammettere che non possedessero una traduzione della Sacra Scrittura nelle proprie lingue, sosteniamo che neppure celebrarono la liturgia in lingua volgare…” (p. 248)… Fin dal principio, quindi, queste tre lingue sono considerate diverse dalle altre, come “consacrate” a Dio.
(12) Insegnamenti pontifici, op. cit. p. 229 (18).
(13) A. A. S., 31 (1899) 645.
(14) Ioachim Salaverri S.J., De Ecclesia Christi, n. 446; in “Sacræ Theologiæ Summa” vol. I, B.A.C., Madrid 1962.
(15) Omelia tenuta il giorno 13-IV-1969 nella Chiesa di S. Girolamo della Carità in Roma. Documenti di “Una Voce” n.1 a cura di “Una Voce”, c.so Vittorio Emanuele II, 21 Roma.
(16) Dom Guéranger, op. cit. pp. 254-255.
(17) Romano Amerio, Iota Unum, Riccardo Ricciardi Editore 1985, pp. 517-518.
(18) Insegnamenti pontifici, op. cit. p. 547.
(18 bis) Per una denuncia recente di gravi alterazioni dogmatiche nelle traduzioni liturgiche, si veda la rivista ’30 Giorni’ (n. 5/maggio 1992, pp. 36-42), che alla questione dedica anche la copertina.
(19) Dell’autorità di Giovanni XXIII e delle circostanze che portarono alla promulgazione della “Veterum Sapientia”, puntualmente disattesa dallo stesso Giovanni XXIII, si parlerà nei prossimi numeri di ‘Sodalitium’ dedicati al “Papa del Concilio”.
(20) Recita “l’Institutio generalis” del nuovo Messale: “La natura delle parti presidenziali esige che esse siano pronunciate a voce alta ed intellegibile, ed ascoltate da tutti con attenzione…” (n. 12).
Commenta Arnaldo Xavier da Silveira (La nouvelle Messe de Paul VI : qu’en penser ?, DPF. Chiré-en-Montreuil 1975, pp. 32-33): «Quindi le parole della consacrazione devono, anch’esse, essere pronunciate in questo modo. Il che insinua, ancora una volta, che in questo momento il sacerdote agisce specificamente come delegato del popolo.
Inoltre, questo articolo dell’“Institutio” contiene in maniera evidente un’importante contraddizione con la rubrica dell’“Ordo” tradizionale secondo la quale il canone non è pronunciato a voce alta ed intellegibile”. Questo fatto merita un’attenzione particolare, a causa dell’anatema seguente promulgato dal Concilio di Trento: “Se qualcuno dice che il rito della Chiesa romana col quale una parte del canone e le parole della consacrazione sono pronunciate a voce bassa, debba essere condannato (…) che sia anatèma” (Denz. Sch. 1759).
Dichiarando che è la natura delle parti “presidenziali” (quindi della preghiera eucaristica e delle parole della consacrazione) che esige che siano pronunciate a voce alta ed intellegibile, l’“Institutio” pone un principio valido in ogni epoca, ed afferma in conseguenza implicitamente che il Concilio di Trento si è sbagliato su questo punto”»
Da Silveira non nega la possibilità di recitare a voce alta delle preghiere che prima erano recitate a voce bassa. Egli nega l’affermazione secondo la quale dette preghiere esigono per loro natura, ai tempi del Concilio di Trento come del Vaticano II, di essere recitate a voce alta. Difatti, chi lo afferma, cade sotto la condanna del Concilio di Trento. Ora, è Paolo VI che ha promulgato l’“Institutio generalis” del “Novus Ordo Missae”, che lo afferma. Questo solo fatto, apparentemente insignificante, basta per constatare che la “Nuova Messa” non può venire dalla Chiesa e che Paolo VI non era, allora, l’Autorità.
(21) Dom Guéranger, op. cit. p. 260.
(22) Dom Guéranger, op. cit. p. 247 – 248.
(23) Dom Guéranger, op. cit. p. 146.
(24) Dom Guéranger, op. cit. p. 539.
La disciplina della Chiesa che proibisce in certi casi la lettura della Bibbia in volgare non ha bisogno di giustificazioni, poiché si giustifica da se stessa. Se mai ce ne fosse bisogno, l’Amerio ricorda le parole stesse della Scrittura. San Pietro, parlando delle epistole di San Paolo, scrive infatti: “…come fa in tutte le lettere, ove parla di queste cose, nelle quali vi sono alcuni punti difficili ad intendersi e che degli ignoranti e i poco stabili stravolgono – come anche le altre Scritture – per loro perdizione” (2 Pt. III, 16). “Peraltro – aggiunge l’Amerio – la prova perentoria che la Scrittura è difficile e non universalmente divulgabile, è data paradossalmente dalla presente riforma medesima. Essa invero ha fatto nei testi biblici quello che fu fatto per i classici latini nelle edizioni espurgate ad usum Delphini, ma che non fu mai osato per il sacro testo. La riforma ha infatti stralciato dai Salmi cosiddetti imprecatorii i versicoli che sembravano incompatibili colle vedute ireniche del Concilio, mutilando il sacro testo e sottraendolo per così dire furtivamente alla cognizione di tutti, chierici e laici. Ha inoltre espunto interi versicoli dai testi del Vangelo nelle Messe in 22 punti che toccano il giudizio finale, la condanna del mondo, il peccato” (op. cit. pp. 538-539).
(25) Dom Guéranger, op. cit. p. 110. Negli estratti che cito manca l’ultimo membro di frase: ”L’arma più potente del papato”. La ricavo dalla citazione che il “Cardinal” Alfonso Stickler ne fa nel suo articolo: “A 25 anni dalla Costituzione Apostolica Veterum Sapientia di Giovanni XXIII in Salesianum 2 (1988) 36377. Stickler però non cita la prima parte della frase riguardante non l’odio del latino, ma la rivendicazione del volgare nella liturgia. Forse, sarebbe stata una denuncia troppo esplicita di colui che tale rivendicazione soddisfo pienamente, vale a dire Paolo VI.
(26) Dom Guéranger, op. cit. pp. 255-256-257.
(27) J. Rilliet, Vatican II, échec ou réussite. Editions générales S.A. 1964, pp.57-58, cit. in Celier. La dimension œcumenique de la Réforme Liturgique. Fideliter, 1987, p.15.
(28) Ralph M. Wiltgen s.v.d., Le Rhin se jette dans le Tibre, ed. americ. 1967. Ed. du Cèdre (ed. francese) 1976, p. 139.
(29) Ibidem pp. 25-28; 39-42; 135-139.
(30) Ibidem p. 28.
(31) Ibidem pp. 36-37.
(32) Tutti i dettagli dell’opera di demolizione nello scritto del suo autore principale agli ordini di Paolo VI, Mons. Annibale Bugnini: La riforma liturgica (1948- 1975). CLV – Ed. liturgiche – Roma 1983. Specialmente: pp. 109-121.
(33) Certezza provata, è vero, a partire dall’8 dic. 1965. Ma fin dal principio del Pontificato l’autorità di Paolo VI può e deve essere messa in discussione, per motivi analoghi a quelli che ce la fanno negare a partire dal 1965.
(34) Rarissimi permessi di usare il volgare nella liturgia di rito latino furono accordati solo in certi paesi di missione, nelle giovani Chiese, per favorire le conversioni, e non senza ripensamenti. Si può dire, anzi, che quasi sempre Roma ha negato, e quasi mai concesso, le domandate autorizzazioni.
Per gli Slavi, fu concesso il volgare (parzialmente) da Adriano II (870) proibito da Giovanni VIII (873, 879) e poi dallo stesso permesso (880) ed infine del tutto vietato da Stefano V (885-887).
Per i Cinesi fu permesso da Paolo V (1615) ma senza applicare tale facoltà, poi sempre e ripetutamente negata (1661, 1667, 1673, 1676-78, 1681-88, 1695-98).
Per gli Ungheresi, fu vietato da San Pio X [AAS, 4 (1912) pp. 430,433] cfr. Enc. Cattolica, vol. VII, col. 1379-1381, voce Lingua Liturgica.
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