Il Sacro Cuore, mistero di misericordia

Nel mese di giugno dedicato alla devozione al Sacro Cuore di Gesù, offriamo ai lettori la traduzione di una conferenza spirituale di mons. Michel-Louis Guérard des Lauriers sulla compassione di Dio per noi. Ogni frase meriterebbe davvero una meditazione. Buona lettura.

M.L. GUERARD DES LAURIERS, O.P.

IL SACRO CUORE, MISTERO DI MISERICORDIA

Il santo Giobbe narra le sue sventure ai suoi amici

La prova, è misura dell’amicizia. La nostra esperienza quotidiana conferma quella che Giobbe fece sul suo letto di dolore: solo colui che è amico fedele persevera nella sua amicizia fino alla fine. Le simpatie che accompagnano le nostre riuscite possono esserci sospette, siccome è sempre mista a qualche perfido egoismo quella spontaneità apparentemente così generosa che ci fa ritrovare noi stessi in quelli che chiamiamo amici. Si preferisce pensare, per non condannarlo, che l’uomo non è per niente capace di meglio, che non possiede se non per un dono gratuito il fondo inestinguibile di bontà fedele che tuttavia da’ ostinatamente per scontato di trovare nei suoi simili: una specie di richiamo permanente a un miracolo dell’amore divino. Quel poveretto, ieri compagno e ornamento delle nostre gioie oneste, è ancora nostro amico? E quell’altro, che rigetta la verità, e che forse a causa della nostra negligenza è caduto, accetteremmo che ci rinfacciasse il passato? Imprudenza. La prova ha misurato ciò che era, essa misura e rettifica la nostra amicizia, cioè la rovina: logica implacabile e così riposante: nessuno è tenuto all’impossibile, e non siamo padroni della vita e della morte per reinstallare la virtù al posto del vizio. Più siamo inetti per prestare soccorso, e più rinneghiamo un’amicizia che sarebbe, nel più intimo del nostro cuore, una vivente contraddizione. Cinismo rivoltante che tuttavia da solo allontana una dolorosa constatazione d’impotenza.

Dio ha altre leggi: c’è qualcosa di troppo basso quando Si abbassa, c’è grandezza umana che davanti a Lui sia un nulla? Il giusto pecca sette volte al giorno e i suoi atti giusti sono come panni sporchi. Davvero è il peccato, il peccato universale che misura la misericordia universale, ma si esaurisce senza esaurirla. Dio non aveva bisogno del peccato per sapere ciò che siamo. Non deve ridursi alla nostra misura d’uomo: la conosce troppo bene. Quanto il cielo è al di sopra della terra, tanto l’amore divino deborda le necessità delle nostre prudenze umane: si stabilisce come a priori in un aldilà che dobbiamo risolverci a non capire con le nostre emozioni, anche le più elevate. È una delusione che solo una virtuosa pazienza supera: quella del padrone che pensa di essersi spiegato minuziosamente e chiaramente, e che si vede costretto a concludere: “davvero, non hanno capito niente”. Quanto spesso il buon Dio dev’essere deluso quando cerca di inculcarci la sua misericordia!

Davvero è una cosa ben ardua da capire, che Dio ci ami fin nel nostro peccato. Il figliol prodigo riuscì a sperperare un intero patrimonio materiale; i suoi sgarri tesaurizzano e accumulano su di lui un’eredità più preziosa, così meravigliosamente inesauribile che non può che essere che un’espressione di Dio, a meno che non sia Dio stesso. Come comprendere la misericordia di Dio se per capirlo bisogna comprendere Dio: e la sua generosità creatrice che moltiplica i nostri desideri, e la sua prodiga bontà che li colma; e infine quella fecondità, che è causa a sé stessa, proprio scopo, che dona per donarsi, lusso per noi senza ragione: ‘Ogni dono perfetto viene dal Padre’; non vi è alcuna buona mozione, alcuna misericordia che non sottolinei per noi il mistero di quest’inesauribile paternità.

Abbiate pietà, o Dio, della nostra ignoranza, davvero è credere nella Vostra misericordia il ritenere che Voi non giudicherete severamente che non la capiamo.

Vi è tuttavia mistero ancor più grande; le due logiche, quella dell’uomo e quella di Dio, continuano ad affrontarsi. Possiamo credere ciò che ci dice Dio, ma allora non ci aspetteremo più di essere consolati delle ristrettezze dell’amicizia umana. La logica divina riempie tutto fra le due, ed è soddisfacendo l’uomo che essa più si allontana dalla logica dell’uomo. La prova misura le nostre forze e le esalta o le riduce: essa non ci schiaccia senza che un rimpianto penetrante e disperatamente solitario non ci affligga. Quale dolore simile al nostro dolore, qual peccato simile al nostro peccato; questa è la nostra parte, il nostro mondo impenetrabile, chiuso; hanno ragione quelli che percorrono la loro strada: è fin troppo chiaro che non possono comprendere. Ma è troppo chiaro anche che invochiamo con tutto il nostro essere qualcuno che comprenda. Dio ci aiuterà, nella stessa misura della nostra miseria e del nostro peccato. Dio piangerà con noi? Bisogna non aver mai sofferto per ignorare questo bisogno del cuore umano, cui la compassione è più dolce del rimedio. E Dio non soffre, e l’uomo conclude che Dio non può compatire: gli uomini, che potrebbero, non capiscono, e Dio che comprende non lo può. Ma Dio è Dio. Non ci amerebbe, fin nel nostro peccato, come può amare un Dio, se non rispondesse alla sfida della sua creatura: vi è qualcuno che si affligga con me del mio peccato?

E chi l’ha fatto dunque questo dolore del nostro peccato, questo dolore “immenso come il mare” e che presto supera il nostro peccato. “È Dio che l’ha fatto e non noi”; esso si estende sotto il nostro sguardo più perspicace come una macchia d’inchiostro che non si può contenere: avremmo il coraggio e la forza di tanta tristezza? Questa compassione che invochiamo, ci deve essere assicurata in anticipo: forse ci illudiamo anche: siamo noi che compatiamo; questa tristezza e questa compunzione saranno più profonde in noi che in Dio che le ha messe in noi? È Lui che ci ha fatti, non ci siamo fatti da soli: c’è in noi qualcosa di buono che Egli non possieda eminentemente per poter donarcelo? Realismo divino che ci fa sviare un’altra volta: pensiamo di far molto perdonando ai colpevoli. Dio piange con loro.

L’amore creatore diviene amore sofferente. Mistero su ogni punto, che ci soddisfa su ogni punto. È davvero di una compassione divina che avevamo bisogno. Ci si può spiegare di un peccato, di qualche semplice peccato si può ancora ricevere una semplice assoluzione; ma di una moltitudine di peccati, di una moltitudine di movimenti segreti e impercettibili che sornionamente si assommano e si integrano in stato, dal fondo indefinito del peccato, dove trovare corrispondenza se non nel divino infinito? Quale sofferenza potrà pareggiare in anticipo a ognuno dei nostri peccati e a ogni nostro peccato, a ognuno dei nostri rimorsi e a tutto il rimorso cui aspiriamo senza potervi giungere? Sofferenza infinita e come di un altro ordine, sofferenza di uno stato, misteriosa come l’amore creatore; tale è questa sofferenza primaria che i nostri atti possono moltiplicare indefinitamente, estendere, riprodurre e fecondare ancora, senza offuscare in nulla la sovrana serenità del suo magnifico spogliamento.

Sofferenza di Cristo Gesù che tocca il peccato dell’uomo: “Cor Jesu attritum propter scelera nostra”. Sofferenza che alcun uomo ha partecipato e di cui solo un Angelo poté essere testimone. Sofferenza che fu lo scandalo e dei giudei e degli Apostoli, e dei parenti del Signore, e dei cristiani suoi fratelli adottivi; sofferenza di cui Gesù portò il peso dalla sua nascita in questo mondo, sofferenza che accettò e s’impose di concerto con suo Padre e che divenne la sua volontà e il suo nutrimento, il mistero nascosto e la contraddizione che portò in Sé stesso prima di spargerli e farli brillare sul mondo. Gesù non ha eluso il problema del male. Ha penetrato nel suo fondo il mistero dell’iniquità debordante. Noi la vediamo solo fuori di noi… un po’ come una domanda, per quanto pressante, di cosmologia spirituale. Gesù l’ha vista a nudo, dentro ognuno di noi, tale quale ci sarà rivelata l’ultimo giorno, e quale ci giudicherà. Noi la vediamo tuttalpiù indefinitamente prolungata: Gesù l’ha toccata in un assoluto che sfida tutte le possibilità di peccato della natura umana. Gesù, nella sua sofferenza, ha esaurito e come risolto tutte le questioni che il peccato può porci: ci da’ per la Sua sofferenza una ragione sufficiente di soffrire e come una chiave dell’enigma: suprema delicatezza, cancella ogni angoscia, nella sofferenza stessa.

Gesù piange con noi, e meglio di noi, ma piange le nostre lacrime stesse? Vede lo stato di peccato e lo distende per vederlo meglio, ma come può parteciparvi, come la nostra sofferenza diventa veramente sua, una sola e stessa? Non è cercare troppo lontano, e cedere al capriccio? Dio risponde di no: è solo in questa sommità che si rivela il mistero della sofferenza di un Dio. Tristezza del peccato, ma tristezza più irrimediabile la necessità di peccare. I peccati del passato diventano una gioia nel beneficio incomparabile del perdono che cancella; ma quelli dell’avvenire, quelli che seguiranno tanti perdoni, e ci renderanno simili alla vigna ingrata! Dolorosa e stupefacente contraddizione: faccio il male che non voglio. Questa è la parte dell’uomo: a che pro quest’ascesa che sfocerà sempre in sottili occasioni in un desiderio importuno, e questa lotta che non ci lascerà mai indenni da rimorsi, e questa fedeltà che non sarà mai una vera, intera, assoluta fedeltà? A che pro voler diventare déi: siamo solo uomini.

Dio è uomo perché l’uomo sia Dio. Dio piange come l’uomo sull’umana miseria, perché l’uomo possa gioire per una vita divina. Sì, è questa contraddizione che sentiamo e che Gesù ha preso su di sé: è la nostra natura umana, così disperatamente debole, che ha fatto sua. Stupefacente conflitto che non poteva che essere a beneficio dell’uomo, amenoché Dio non cessasse di ritrovarcisi Dio. Gesù non ha solo visto il fondo indefinito del peccato, Si è veramente identificato nello stato di peccatore. Non vi è nulla in noi il cui principio non sia in Lui. Languori sconcertanti, che bruscamente sterilizzano il nostro generoso slancio verso Dio, insidie che goccia a goccia riempiono il calice; sofferenze così forti, così laceranti, quelle del corpo che logorano, quelle dell’anima che martellano e straziano, e inducono a quel minimalismo così prossimo alla morte, sola visione di riposo. Gesù sa, vive, prova tutto questo per ciascuno di noi, in modo tale che il pensiero ce ne sopraffà, come i discepoli nel Gethsemani. E tutto questo in lui va come a morire misteriosamente sulla riva della sua divina beatitudine. Gesù non può sposare tutta la nostra umanità solo perché lui è Dio, tutta l’inesauribile prospettiva della nostra tristezza, se non sovrapponendola a una perfetta pienezza. Conclusioni disperate che la sollecitudine del nostro Padre ha mutato in consolazioni intime ed efficaci, in questo mistero di misericordia sempre presente, che la Chiesa chiama il Cuore di Gesù.

È in una sovrana tristezza dei mali degli uomini che Gesù concepì l’amore per gli uomini. È con questa tristezza sofferente che Egli resta uno di loro e continua ad amarli. Egli s’identifica allo stato di peccatore; porta nell’eternità stessa questo stato. Conveniva che Cristo soffrisse per entrare nella gloria; e il trionfo non segue né precede più la sofferenza: sono l’uno e l’altra, correlativi, inseparabili, stati che non si possono concepire se non l’uno mediante l’altro e non si possono spiegare che con l’amore. Perché costituiscono la reazione dell’amore sovrano al peccato. Le stigmate di Gesù diventano come il segno della potenza invitta dell’amore, più forte della morte, più forte dell’odio, soprattutto più forte del peccato. Ma sono delle stigmate invisibili che Gesù porta nel suo Cuore, pegno perpetuamente attuale di un trionfo più profondo, fonte stessa del mistero della sua misericordia. Noi non comprendiamo l’Amore, come capiremmo ciò che un cuore d’uomo può aggiungere all’amore di un Dio? Misteriosa possibilità di sofferenza e di tristezza, misteriosa insufficienza di natura che coincide col nostro essere stesso e che sospettiamo abitualmente; per quale mistero nuovo si trova in Gesù tutto ciò, che Lo rende così teneramente prossimo a noi? Com’è che Questo eccesso di stabilità, che ciascuno di noi riceve nella Sua Persona, non è che l’inverso di quella prodigiosa compassione che fa subire in Lui – l’Impassibile – le nostre debolezze e i nostri languori?

Ancora una volta, mistero d’amore che si deve adorare e toccare nell’amore.

È in questo stato che Gesù ci ama. In questo stato in cui la sofferenza e l’amore, accorpati in un unico principio che è l’essere stesso dell’uomo-Dio, diventano una sola cosa e un solo stato. È troppo poco credere che Dio ci ha amati: l’Agonia di Gesù ne è una prova, ma come distante, nella lontananza del tempo. C’è un altro rilievo che indica di già ciò che sarà la visione dell’amore; perché se la sofferenza e l’amore sono una stessa cosa, non vi è più inferenza dall’uno all’altro, ma un’identità sovrana, che si diffonde nell’anima. Consoliamoci dei nostri peccati: se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore, e comprende il nostro cuore e trabocca nel nostro cuore. Il mistero dell’amore sofferente, è la rivelazione fatta ad ogni carne del mistero inaccessibile e sempre presentito, che san Giovanni percepiva in una luce più serena e che noi portiamo in noi, certezza assoluta, infinitamente piena, che mette le nostre vite al riparo da tutto: “Dio è amore”.

Pro manuscripto

Monsignor Guérard des Lauriers